Giovedì 8 aprile, la sezione di Sociologia della salute e della medicina dell’Associazione Italiana di Sociologia ha tenuto un convegno online, per discutere e presentare le proposte di riforma e rilancio del SSN contenute nel Libro Bianco prodotto da una ventina di esperti della stessa associazione (qui la locandina dell’evento). Questo lavoro ha analizzato la configurazione del SSN rispetto alla pandemia di Covid-19, per definire alcune linee di azione strategica. Lo scopo di queste azioni è l’incremento delle capacità di resilienza per rispondere con efficacia ai bisogni emergenti di salute in tempi di pandemia, per contribuire alla discussione in atto sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Si tratta di una discussione della quale c’è davvero bisogno: è chiaro che il servizio sanitario è stato preso del tutto in contropiede dalla pandemia, almeno in alcune regioni. Ma il problema è, con ogni evidenza, molto più ampio e riguarda temi che da anni vengono indicati all’attenzione pubblica dai professionisti impegnati nella tutela della salute, dalle associazioni dei cittadini e anche da molti amministratori locali e nazionali. Le malattie della sanità italiana sono note: scarso coordinamento tra ospedale e territorio, eccessive difformità organizzative tra le diverse regioni, insufficiente digitalizzazione, mancanza di un approccio di sistema che tenga conto dell’evoluzione della domanda di salute e delle soluzioni organizzative, tecnologiche, professionali e sociali per soddisfarla. Quello che il Libro bianco propone è un approccio complessivo a questi problemi, in cui le lezioni della pandemia possono diventare un punto di partenza per progettare il futuro.
Tra i numerosi contributi autorevoli e qualificati che hanno caratterizzato il convegno, è particolarmente significativo quello della professoressa Giovanna Vicarelli (Università politecnica delle Marche). Dopo aver analizzato il dualismo costitutivo della sanità italiana, con i servizi territoriali da una parte e gli ospedali dall’altra, dopo aver sottolineato come il territorio sia stato gravemente sottofinanziato rispetto alla controparte ospedaliera e dopo aver notato come a questa carenza di finanziamenti faccia riscontro una carenza di governance e di omogeneità, Vicarelli passa a una parte propositiva, che qui vale la pena di presentare, anche se sinteticamente.
Nel corso degli anni, il concetto di Cure primarie ha subito un’evoluzione caratterizzata da almeno tre tappe fondamentali.
- Dall’attenzione alle patologie e al benessere del singolo individuo a quella alla collettività nei diversi gradi di morbilità (acuti e cronici) e di welfare, nonché alle differenze di genere, età, etnicità ecc. Dal capitale di salute individuale, al capitale sociale di salute.
- Da una logica di sommatoria di singoli servizi a quella di rete tra
- servizi di ambiti diversi (sanitari, sociosanitari, sociali),
- servizi di diversa collocazione (domiciliari, territoriali),
- professionisti e operatori di diverse specialità (team e equipe professionali inter e intraprofessionali)
- professionisti e assistiti in una logica di sempre maggior ruolo dei pazienti e delle loro famiglie, oltre che delle loro associazioni di rappresentanza.
3. Da una medicina di attesa a una d’iniziativa, per intervenire prima delle complicanze e dell’aggravamento delle patologie, con i conseguenti costi economici e sociali.
Queste tre tappe devono concretizzarsi sul piano strutturale e funzionale. In altri termini, deve diventare realtà in tutto il paese e non solo in aree limitate un ambito di cure primarie comunitario, reticolare, d’iniziativa cioè un sistema effettivamente integrato con il proprio baricentro sul territorio.
Su come raggiungere questo obiettivo, ci sono state due posizioni contrapposte, quella strutturale (la struttura e il pubblico dominano la programmazione e l’erogazione) e quella funzionale (si stabilisce chi deve funzionalmente svolgere quelle attività in modo meno direttivo e programmatorio), con possibilità di forme ibride. Negli ultimi anni si è aggiunta una terza posizione, non necessariamente contrapposta alle prime due ma complementare ad entrambe, centrata sul potenziamento delle reti telematiche come strumento di integrazione. In mancanza di direttive cogenti da parte del Ministero, anche qui sono prevalse le differenze regionali, come ad esempio nelle case della salute (più strutturale in Emilia-Romagna, più funzionale in Toscana) o l’adattamento a contesti territoriali specifici su modalità organizzative preesistenti (i piccoli ospedali trasformati in case della salute nelle Marche).
In questa prospettiva, l’ultima versione del PNRR sembra far proprie tutte queste linee di intervento con finanziamenti specifici e (forse) una maggiore governance nazionale. Ciò che preme sottolineare è che, se si vuole davvero realizzare il rilancio, bisogna valorizzarne tutte e quattro le componenti specifiche: capitale, forza lavoro, tecnologia e imprenditività. Ognuna è necessaria e non si può procedere se non attivandole contemporaneamente.
In altri termini, il PNRR deve garantire contemporaneamente finanziamenti aggiuntivi, incremento del personale, investimenti in tecnologia e capacità di gestire il SSN in termini innovativi, ma guidati da forti valori condivisi. Ciò significa garantire il raggiungimento della salute della popolazione con la maggiore efficacia ed efficienza possibile e non viceversa, come si è fatto negli ultimi trenta anni.