Al momento in cui scriviamo, i dati ufficiali del ministero della Salute attestano il totale dei morti da Covid-19 appena sotto i centomila. SI tratta di un numero impressionante, ma fermarsi a questo dato rischia di farci sottovalutare l’impatto complessivo della pandemia. Guardando il quinto rapporto prodotto da ISTAT e ISS, saltano subito agli occhi due numeri.
Il primo è il totale dei decessi nel 2020, 746.146, vale a dire 100.526 in più rispetto alla media 2015-2019, con un balzo in avanti del 15,6 per cento. Il secondo è il numero di morti direttamente collegate al Covid: tra il mese di febbraio e il 31 dicembre 2020 sono stati registrati 75.891 decessi nel Sistema di Sorveglianza Nazionale integrata dell’ISS. Si assiste quindi a un eccesso di mortalità complessivo, ancora più rilevante se si nota che nel periodo gennaio-febbraio il 2020 aveva fatto registrare un significativo calo dei decessi complessivi; un quarto di questi, però, ha cause diverse dall’epidemia. La spiegazione è chiara: il Covid ha avuto, sta avendo un impatto devastante su tutti i livelli dell’assistenza sanitaria, sia diretto (i malati che devono essere curato), sia indiretto, per la necessità di introdurre precauzioni e procedure che ostacolano la normale assistenza per altre patologie.
Di conseguenza, si viene curati di meno, anche per patologie gravi. Per fare un solo esempio, uno studio apparso sul Giornale di cardiologia già nel luglio scorso evidenziava un crollo del 45-50 per cento nei ricoveri per sindrome coronarica acuta. Se eventi acuti, nei quali il tempismo è decisivo, sono stati così gravemente trascurati, probabilmente le terapie croniche e la prevenzione hanno sofferto ancora di più, dato che le risorse del SSN, che già faticavano a coprire il fabbisogno terapeutico e assistenziale, sono state quasi monopolizzate, almeno in alcune regioni, dalla nuova minaccia.
A queste condizioni, è facile prevedere che, anche se riuscissimo, con una campagna vaccinale finalmente all’altezza delle necessità, a uscire dall’emergenza epidemia, tutto questo arretrato finirà per presentare il conto, con una mortalità complessiva che impiegherà almeno un paio d’anni per tornare ai livelli pre-Covid e con un aggravio di lavoro per tutta la sanità italiana che continuerà ancora a lungo. Al momento, è difficile fare stime appropriate di questa vera e propria onda lunga, anche se i dati sulle prestazioni sanitarie sono disponibili. Va fatto un lavoro di raccolta e analisi che sia capace di guardare in avanti, spingendosi oltre l’emergenza.Dobbiamo (ri)cominciare, a tutti i livelli della sanità, a riflettere sulla domanda di salute nel suo complesso. Non possiamo permetterci di trovarci un’altra volta con la coperta corta di risorse troppo limitate in sanità, al punto che per gestire l’epidemia diventi necessario trascurare le cardiopatie, l’assistenza oncologica e le cronicità, senza contare la prevenzione, la diagnosi precoce e gli interventi di elezione. Questo significa invertire finalmente la tendenza a tagliare la sanità, ma può non bastare. Servono, infatti, due cose: l’integrazione vera di tutti gli attori del sistema salute, quindi non solo ospedale e territorio ma anche pazienti e famiglie, e l’introduzione di una vera cultura dei dati, che permetta di accedere in tempo reale a tutte le informazioni che contano, a tutti i livelli, e di ottimizzare le strutture e le risorse rispetto a tutti i bisogni di salute. L’emergenza è certamente ancora un fatto reale e va certamente affrontata; ma bisogna uscire il prima possibile dalla mentalità dell’emergenza, che ci costringe a concentrarci sul pericolo imminente e ci fa perdere di vista il quadro generale. Ci sono già venticinquemila morti a ricordarci quanto tutto ciò sia importante.