La prima emergenza prodotta dalla pandemia è quella dei contagi, delle conseguenze immediate sulla salute delle persone e sulla tenuta dei sistemi sanitari, in tutto il mondo. Ma non è la sola: un’altra, altrettanto nota, è quella economica, con interi settori in profonda crisi e una generale incertezza. C’è poi quella che potremmo chiamare un’emergenza sanitaria secondaria, legata a tutte le prestazioni che non possono essere erogate da servizi quasi monopolizzati dal covid, o che comunque devono fare i conti con una sostanziale riduzione delle risorse disponibili, almeno nell’immediato. L’anno di mancata prevenzione, ridotta gestione delle cronicità e allungamento dei tempi per gli interventi non di urgenza presenterà ben presto un conto salato e sarà opportuno cominciare a farci i conti.
Oggi, però, vorremmo parlare di un altro aspetto, che almeno in Italia sembra relativamente sottovalutato: le conseguenze psicologiche della pandemia. Si tratta di un problema evidenziato, per esempio, da una ricerca effettuata in Canada dal Mental Health Research Group, che ha rilevato come ansia e depressione siano arrivati, quest’inverno, a livelli mai raggiunti prima, con il 22 per cento degli intervistati che ha dichiarato di aver avuto una diagnosi di depressione e il 20 per cento una di sindrome ansiosa, in aumento del 4 per cento rispetto all’anno precedente. Nel nostro Paese, l’Istituto europeo per il trattamento delle dipendenze ha rilevato che gli acquisti di benzodiazepine sono cresciuti del 4 per cento nei primi sei mesi del 2020. Anche nel Regno Unito le prescrizioni di antidepressivi hanno raggiunto livelli record e più di 6 milioni di pazienti sono stati trattati con questi farmaci. Anche negli Stati Uniti il consumo di antidepressivi è bruscamente salito, dopo un quinquennio in cui il ricorso agli psicofarmaci in generale aveva registrato un costante calo.
Le cause immediate di questa vera e propria epidemia nell’epidemia, che forse colpisce una porzione di popolazione ancora maggiore dello stesso coronavirus, sono da ricercarsi nelle difficoltà economiche e negli effetti del distanziamento sociale, che priva molte persone di rapporti umani significativi e le precipita in un senso di solitudine protratta e irrimediabile. Altro fattore di notevole rilevanza, la paura per la propria salute, indotta dalla continua esposizione a notizie preoccupanti. Uno degli elementi chiave nell’innesco del disagio psicologico, e in particolare dell’ansia e della depressione, è la cosiddetta ruminazione, vale a dire il continuo, ossessivo ritorno su pensieri sconfortanti senza nemmeno cercare una via d’uscita, a cui si è rinunciato in partenza.
Qui sembra che un ruolo importante sia quello giocato da un certo tipo di fruizione dei canali social e di notizie, a cui si fa maggiore ricorso proprio per il senso di isolamento indotto dalle misure di distanziamento. Anche se sono ancora pochi gli studi in merito, un recente studio cinese (citato da State of mind) su 439 giovani di Wuhan ha esaminato l’effetto dei social media in questo senso. Dalla ricerca è emerso che l’esposizione a una grande quantità di notizie dalle varie piattaforme mediatiche ha fatto riportare livelli più elevati di paura, ansia e depressione. Inoltre, l’esposizione ai social media influenza il disagio emotivo attraverso la funzione di mediazione della ruminazione: una maggiore esposizione, che in questo caso costituisce il fattore stressante, tende ad attivare processi cognitivi di tipo ruminativo, che a loro volta incrementano i livelli di ansia e depressione.